lunedì 28 luglio 2014

SPECIALE ONCE UPON A TIME : "NELLA NOTTE" LA FAN-FICTION DI BENE DEDICATA ALLA SERIE TV

Buonasera lettori! Questo post è dedicato a tutti coloro che, come me, amano la serie tv Once Upon a Time e i suoi magici personaggi.
Da qualche mese, abbiamo concluso la terza stagione che ci ha lasciato con il fiato sospeso, piena di interrogativi e nuovi misteri da sbrogliare, nonchè tanti sconvolgimenti nei rapporti tra gli abitanti di Storybroke.
La mia amica Bene che è davvero una scrittrice eccezionale (continuate a leggere e ne avrete la prova) ha realizzato questa splendida fan-fiction per alleviare la nostalgia dalla serie che riprenderà in inverno.
L'estratto che trovate  rielabora in maniera profonda e commovente una scena rubata alla puntata in cui Biancaneve da alla luce il figlio maschio.


NELLA NOTTE
(Missing scene ambientata alla fine della puntata 3x20 – Kansas. Emma, il principino e il silenzio della notte.)

Nella sua burrascosa infanzia, non era raro per Emma incrociare, nelle diverse case famiglia in cui alloggiava, un neonato abbandonato o un bambino piccolo allontanato da una famiglia inadeguata. Anche se di quei tempi i ricordi erano confusi e sbiaditi, una cosa le era rimasta chiaramente impressa, un sillogismo inconfutabile su cui niente e nessuno avrebbe potuto farle cambiare idea: bambini uguale pianto, pianto uguale mal di testa. Per questo, crescendo, aveva sempre cercato di volar basso in quelle particolari famiglie e mantenersi il più lontano da quei piccoli esserini urlanti per evitare di trovarsi appioppato il compito di babysitter. 
Col senno di poi, in una vita forse falsa, ma non per questo per lei meno reale, si era dovuta pentire di non aver collezionato preziosa esperienza su come rapportarsi con un neonato, quando, poco più che bambina e senza nulla se non un vecchio maggiolino giallo e un ciondolo al collo, si era ritrovata a dover crescere il piccolo Henry. Ripensando a quei burrascosi primi mesi, passati ad arrabattarsi tra lavoretti part time e poppate notturne, ciò che permeava quei lontani momenti era un senso costante di insicurezza e paura. Avrà mangiato abbastanza? Ma piange perché ha fame o perché ha una colichetta? Avrà freddo solo con la copertina, anche se siamo in agosto inoltrato? Perché questa febbre improvvisa? Saranno i denti o è qualcosa di grave? Devo portarlo da un medico, ma poi con quali soldi lo pago? E così via, un substrato in continuo fermento di dubbi alimentato dal più grande rimpianto, quello del non avere nessuno a cui chiedere consiglio. Ma piangersi addosso richiede tempo (A quanto pare, Henry, fare la mamma vuol dire che non ho più tempo nemmeno per una doccia. Hai di nuovo fame?) e non porta a risultati (Anche questo lavoro è andato. Speriamo nella prossima città siano più umani. Siamo io e te contro il mondo, ragazzino). 
L’esperienza è al contempo lezione da apprendere e maestra che insegna, e giorno dopo giorno le cose si evolvono, e come il piccolo Henry cresceva e festeggiava il passare dei nuovi anni, l’insicurezza di Emma di fronte a un neonato lasciava il posto a un profondo orgoglio materno di chi sa di potercela fare.
Non importa se questi ricordi erano falsi, come tutti i cittadini di Storybroke risvegliatisi dalla prima maledizione, anche Emma ora era cambiata, non era più solo la cacciatrice di taglie solitarie che ha passato la vita a scappare da un posto all’altro alla ricerca di qualcosa che la legasse, era anche una madre sicura di sé con un rapporto quasi fraterno con un figlio già così grande per una donna appena trentenne. Giusto per complicare le cose, visto che invece il suo fratello di sangue aveva appena poche ore di vita. Tre ore e ventisette minuti, per l’esattezza, ma chi conta.
Alla fine di ogni battaglia, c’è un momento in cui l’euforia si sgonfia, l’adrenalina svanisce, le ferite ricevute dolgono, la mente corre veloce e rivive in un turbinio confuso tutto quello che è stato. In quel momento, anche il corpo più audace si arrende ai fumi di un necessario riposto. 
Al fervore della battaglia succede il silenzio della notte, alle urla della vittoria segue il silenzio del sonno, ai pianti del parto il sospiro di un abbraccio. Attorno ad Emma e alla sua famiglia (quale amore infinito si può raccogliere con una sola parola) anche le mura dell’ospedale parevano essersi piegate obbedienti al silenzio della notte. Niente sirene, niente bip fastidiosi, niente infermieri invadenti. Solo il riposo esausto di chi è andato oltre i propri limiti. 
Henry, sfinito da tanta eccitazione, giaceva accasciato contro i braccioli di una poltrona troppo piccola per lui. Né Emma né Regina erano riuscite a convincerlo ad allontanarsi da quella stanza d’ospedale, ma entrambe le madri avevano istintivamente colto quel velo di paura del distacco nascosto negli occhi del giovane, al quale avevano infine ceduto concedendogli di rimanere a prestare la sua particolare veglia a protezione della sua appena ritrovata famiglia. 
A proposito di Regina, benché avrebbe negato con tutte le forze a chi dicesse di averla vista dormire in sala d’attesa, in quanto non è regale farsi vedere in pubblico accasciata lungo quelle scomode sedie arancioni di plastica di cui ogni ospedale, apparentemente anche quelli magicamente creati, sono dotati, nemmeno lei aveva voluto allontanarsi troppo dalla sua postazione di vedetta. A parole, aveva detto per rimanere vicina Henry, ma il luccichio nei suoi occhi quando aveva visto il piccolo principe cullato dalle braccia sorridenti di Snow raccontava una storia diversa a quell’osservatore attento che conoscesse lo strano ma potente legame che univa queste due donne. 
In questo caso, l’osservatore era un principe senza mantello e senza cavallo, un guerriero anch’egli provato dalle fatiche della giornata, ma che non per questo si era arreso al dolce richiamo del sonno prima di essersi steso e aver abbracciato la donna che per la seconda volta gli aveva donato il più grande dono immaginabile, quello della paternità.
La salvatrice però non riusciva a dormire, troppi pensieri le impedivano di rilassarsi abbastanza per permettere alla stanchezza di compiere il suo decorso. Andarsene. Rimanere. Genitori. Fratelli. Morte. Vita. Ad occhi chiusi, cercando di ignorare il vortice dei pensieri, all’improvviso la colpì il sentore di non essere più la sola ancora sveglia. Anni in letti diversi prima e come madre single dopo avevano affinato l’istinto di sapere sempre quando qualcuno affianco a te si sta svegliando. Stanche palpebre si alzarono e, seguendo l’istinto materno, la portarono a cercare subito il suo Henry, che dormiva beato con la faccia schiacciata contro lo schienale della poltrona e le gambe accavallate in grembo alla ricerca di una seppure minima comodità. Mentre pensava ai fastidi che quella scomoda posizione gli avrebbe fatto sentire l’indomani, i suoi occhi si erano già spostati verso il letto dove, ovviamente abbracciati, dormivano i suoi genitori. Con un lieve sorriso ironico, pensò che anche a poche ore dal parto quei due erano il ritratto di una coppia di innamorati pronta a saltarsi addosso. Sarà la conseguenza di condividere un cuore, chissà. Tuttavia, Emma si era sempre fidata del suo istinto, quindi non rimaneva che una sola persona nella stanza che poteva essere sveglia. Alzandosi in silenzio dall’altra scomoda poltrona che aveva eletto a proprio giaciglio per la notte, si avvicinò lentamente alla culla di plastica trasparente posta in fondo al letto. Qui, in mezzo a una coltre di lana e lino, due chiarissimi occhi erano innegabilmente aperti ad osservare questo nuovo magnifico mondo. 
Gli scienziati sostengono che i neonati non vedono bene e che non sono in grado di sorridere, Emma si ricordava di averlo letto quasi quindici anni prima in qualche libro per mamme, ma diamine, nulla avrebbe potuto convincerla che quegli occhi cerulei non si fossero voltati verso i suoi e, dopo solo un secondo di contatto, su quella minuscola bocca non fosse comparso un sorriso di gaiezza.
Per la seconda volta nella sua vita, davanti a un neonato, non sentì repulsione ma attrazione. Senza pensare, come solo l’istinto e la familiarità possono fare, le sue braccia si cinsero attorno a quel piccolo corpicino vibrante di vita, avvicinandolo a lei in un abbraccio cullante. Due paia di occhi si specchiarono nell’altro e in un secondo solo qualcosa di nuovo aveva messo radice in lei. Un piccolo seme sepolto in profondità che all’improvviso aveva germogliato con l’esplosione dell’affetto che quel piccolo umano le stava fiduciosamente donando.
Nel silenzio della notte, protetta dalla consapevolezza di non doversi fingere forte davanti a nessuno, come per magia le sue difese di abbassarono e un pezzo del suo cuore da quel momento divenne proprietà privata del piccolino.
“Ciao principino. Sono Emma. So che è strano, ma sono tua sorella maggiore. E sono qui per proteggerti.”
Mentre una lacrima le solcava silenziosamente il viso, nascosta dalla penombra della notte, un pensiero improvviso passò per la mente di Mary Margaret alla visione dei suoi due figli per la prima volta insieme. Forse la lietezza non va cercata alla fine del viaggio. Forse è l’avventura in sé che ci può rendere felici. Quello, e la tua famiglia che dorme accanto a te.



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